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Al via la 32ª edizione del Trieste Film Festival

Appuntamento dal 21 al 30 gennaio con il 32. Trieste Film Festival: diretto da Fabrizio Grosoli e Nicoletta Romeo, che pur in una nuova formula imposta dall’emergenza sanitaria Covid-19 (gli oltre 50 titoli in programma si potranno vedere online su MYmovies) non rinuncia alla sua storica “missione”: che è, sì, quello di portare in Italia il meglio del cinema dell’Europa centro orientale, ma anche – basti pensare alle recenti edizioni dedicate al Muro di Berlino e alla riunificazione della Germania – tenere viva, proprio attraverso il cinema, la memoria delle pagine più importanti della storia di questa parte di (vecchio) continente.

Non stupisce, dunque, che questa edizione avrebbe dovuto avere il proprio fulcro nel ricordo del trentennale delle guerre balcaniche (1991/2021): «Il focus sul trentennale delle guerre balcaniche (1991/2021) è un progetto a cui stavamo lavorando da anni – spiegano i direttori artistici. La pandemia ci ha costretti a posticiparlo, perché di molti dei film che avremmo voluto proporre esistono soltanto le copie in 35mm, impossibili da “proiettare” in un festival online. L’appuntamento è dunque rimandato (speriamo già in primavera), ma ci sembrava doveroso che a un anniversario così importante fossero dedicati due momenti “simbolici” come l’apertura e la chiusura».

Se ad aprire il festival sarà Underground, Palma d’oro a Cannes nel 1995, la favola anarchica e surreale con cui Emir Kusturica “reinventò” col suo stile debordante la dissoluzione della Jugoslavia, a chiuderlo ci sarà un altro grande film, Lo sguardo di Ulisse di Theo Angelopoulos, vincitore del Grand Prix in quella stessa edizione. Due film che non si potrebbero immaginare più diversi, “come dire – per usare un’espressione coniata all’epoca dal critico cinematografico Morando Morandini – l’Odissea e l’Iliade di questa fine di secolo”.

Alla proiezione di Underground sarà inoltre legato uno dei due tradizionali premi assegnati dal Trieste Film Festival, l’Eastern Star Award: nato per segnalare le personalità del mondo del cinema che con la loro carriera hanno gettato un ponte tra l’Est e l’Ovest (nell’albo d’oro Irène Jacob, Monica Bellucci, Milcho Manchevski, Rade Šerbedžija, Kasia Smutniak), il premio va quest’anno a Miki Manojlović,   un grande interprete che si è imposto grazie al sodalizio con Kusturica (oltre a Underground ricordiamo Papà… è in viaggio di affari e Gatto nero, gatto bianco) per poi superare i confini della Jugoslavia lavorando con registi come François Ozon (Amanti criminali), Giuliano Montaldo (I demoni di San Pietroburgo), Sam Garbarski (Irina Palm, che gli vale la candidatura all’European Film Award).

Il Cinema Warrior Award, istituito per premiare l’ostinazione, il sacrificio e la follia di chi “combatte” per il cinema, va invece all’Associazione U.N.I.T.A., per il suo impegno nella promozione del mestiere dell’attore nel panorama artistico, culturale e sociale italiano, con particolare attenzione alle questioni di genere e con un codice etico che ne garantisce serietà, professionalità e una centralità di temi quali l’etica del lavoro, la sostenibilità, l’accoglienza e l’inclusività.

Nucleo centrale del programma si confermano i tre concorsi internazionali dedicati a lungometraggi, cortometraggi e documentari.

Tredici i titoli del Concorso lungometraggi (in giuria la regista Adina Pintilie, la produttrice Ewa Puszczyńska, il programmer e critico cinematografico Paolo Bertolin). 

Due storie di paternità messa a dura prova da un contesto che rende difficile (ma non impossibile) assolvere al proprio ruolo di genitore: se il protagonista di Father di Srdan Golubović (Premio del pubblico nella sezione Panorama dell’ultima Berlinale) si scontra con la corruzione dei servizi sociali nella Serbia di oggi, quello di Andromeda Galaxy di More Raça è disposto a tutto pur di lasciare il Kosovo per garantire alla figlia un futuro migliore in Germania. Tra Kosovo e Germania si muove anche Exil di Visar Morina, visto al Sundance, che attraverso la storia di un ingegnere farmaceutico discriminato per ragioni etniche si interroga – per dirla con il regista – su “un occidente arrogante nei confronti di chi proviene da Paesi economicamente deboli”. Tra Polonia e Irlanda è ambientato invece I Never Cry di Piotr Domalewski, sguardo realistico sulle difficoltà che affrontano le famiglie separate dall’emigrazione, e di immigrazione si parla anche nel bulgaro Fear di Ivaylo Hristov, dramma che vira in commedia (dell’assurdo) su una donna pronta a mettersi contro l’intero villaggio per ospitare un migrante. Dall’Europa di oggi a quella dell’immediato dopoguerra con A Frenchman di Andrej Smirnov, la Mosca del 1957 vista con gli occhi di un ragazzo francese, figlio di un ufficiale arrestato negli anni 30, e In the Dusk di Šarūnas Bartas, selezionato al Festival di Cannes e presentato in prima mondiale a San Sebastian: il romanzo di formazione di un diciannovenne sullo sfondo della Resistenza lituana contro l’occupazione sovietica dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Dalla Grecia arriva Pari di Siamak Etemadi, una madre iraniana per le strade di Atene alla ricerca del figlio studente, di cui non ha più notizie; tutt’altro tono, dalla Romania, nella commedia satirica The Campaign di Marian Crișan, un politico in odor di corruzione a caccia di voti per un seggio a Strasburgo, e nel serbo My Morning Laughter di Marko Đorđević prende le mosse da uno spunto autobiografico per raccontare il coming of age fuori tempo massimo di un trentenne. E ancora, due dei film più sorprendenti della scorsa stagione: il polacco Sweat di Magnus von Horn, anche questo selezionato a Cannes, tre giorni nella vita di una “fitness-influencer” che da star di instagram diventa vittima di uno stalker, e il georgiano Beginning di Dea Kulumbegashvili, selezionato a Cannes e vincitore a San Sebastian, storia di una donna, Yana, moglie del leader di una comunità di Testimoni di Geova attaccata da un gruppo estremista. Per finire, Faruk Lončarević, che in So She Doesn’t Live si ispira al più efferato caso di omicidio della Bosnia post-bellica per raccontare un mondo ancora brutale.Evento speciale fuori concorso, dall’Azerbaigian, In Between Dying di Hilal Baydarov (presente anche nel concorso documentari col suo Nails in My Brain),  viaggio nella consapevolezza interiore che guarda al cinema di Bresson. 

Dieci i titoli del Concorso documentari (in giuria la regista Eszter Hajdú, la direttrice del Biografilm Festival Leena Pasanen e la direttrice della scuola ZeLIG di Bolzano Heidi Gronauer).

Acasă, My Home di Radu Ciorniciuc, premiato al Sundance, è la storia di una famiglia che per decenni ha vissuto nell’area disabitata e incolta del Delta di Bucarest, un bacino idrico abbandonato alla periferia della metropoli, finché la trasformazione della zona in parco nazionale pubblico non la costringe a trasferirsi in città. E i “luoghi di famiglia” sono al centro anche di Nails in My Brain dell’azero Hilal Baydarov,  viaggio tra le rovine di una casa d’infanzia, dove ogni porta pericolante si apre sul passato, in una riflessione sulla memoria – e sul cinema – che è eterno ritorno sulle stesse domande, gli stessi ricordi, gli stessi chiodi fissi; e di Blockade di Hakob Melkonyan, che attraverso la storia di una famiglia del suo villaggio natale racconta il conflitto del Nagorno-Karabakh. Due film dalla Croazia: Landscape Zero di Bruno Pavić, che ci porta su una striscia di costa devastata da un insediamento industriale per riflettere sulla relazione tra uomo, natura e cultura; e Once Upon a Youth di Ivan Ramljak, ritratto di una generazione perduta, quella gioventù della fine degli anni Novanta in cerca di una (nuova) identità dopo la devastazione della guerra. Dalla Russia Town of Glory di Dmitrij Bogolyubov, girato nel corso di tre anni a El’nja, città-simbolo della propaganda di ieri e di oggi, e la Russia è al centro anche del tedesco Garage People di Natal’ja Jefimkina, il garage come (ultimo) rifugio dell’individualità. Dall’Austria, Please Hold the Line di Pavel Cuzuioc è uno sguardo feroce e pieno di humour che, attraverso il lavoro di alcuni tecnici delle comunicazioni in Moldavia, Romania, Ucraina e Bulgaria, riflette sulle contraddizioni di una società sempre più “connessa” in regioni lacerate dai nazionalismi. Il confronto tra un figlio che sta diventando padre – lo stesso regista Andrei Dăscălescu – e un padre che si è fatto monaco è al centro del rumeno Holy Father. In ultimo, il lituano Gentle Warriors di Marija Stonytė, dove l’indipendenza di tre giovani donne passa dal servizio di leva volontario e dall’addestramento in una base militare tra 600 commilitoni.

Sedici i titoli del Concorso cortometraggi (in giuria la direttrice artistica della Cinéfondation del Festival di Cannes Dimitra Karya, la produttrice Andrijana Sofranić Šućur e la giornalista Alessandra De Luca): l’Italia è rappresentata da Illusione di Lorenzo QuagliozziLa tecnica di Clemente De Muro e Davide Mardegan (CRIC).

Due nuove sezioni integrano l’impianto tradizionale dei concorsi: Fuori dagli sche(r)mi e Wild Roses: Registe in Europa

«Con Fuori dagli sche(r)mi – spiegano i direttori artistici – abbiamo voluto creare una vetrina dedicata alle nuove prospettive e alle nuove forme cinematografiche. Film che manifestano un grado di “libertà” tanto nella durata quanto nella struttura narrativa, aperti a ibridazioni di generi e linguaggi». Una sezione aperta tanto ad autori affermati quanto a giovani talenti. Tra i primi, due tra i più importanti cineasti rumeni contemporanei: Cristi Puiu (anche protagonista di una masterclass online) con l’anteprima italiana di Malmkrog, già premiato alla scorsa Berlinale, che adattando “I tre dialoghi” di Vladimir Sergeevic Solov’ëv vince la sfida di un’indagine filosofica su cinema e memoria; e Radu Jude, che in Tipografic Majuscul parte da un testo teatrale per raccontare le vicende parallele di Ceaușescu e di Mugur Călinescu, un “Pasquino” adolescente nella Romania comunista che sfidò il regime scrivendo sui muri i propri messaggi di protesta. Gli stessi anni, ma in Polonia, tornano in An Ordinary Country di Tomasz Wolski, sorta di Le vite degli altri più vero del vero, un documentario di found footage fatto “solo” di film e nastri registrati da ufficiali dei servizi di sicurezza comunisti, tra gli anni ’60 e ’80. E ancora, l’ucraino Oleh Sencov con Numbers, fantascienza distopica girata a distanza, da un carcere di massima sicurezza in Siberia dove il regista stava scontando una pena di 20 anni, accusato di attività terroristica. Per finire, due registe: la serba Jelena Maksimović, che in Homelands riflette sulle patrie della famiglia scoprendo il villaggio da cui la nonna fuggì durante la guerra civile greca; e la russa Maria Ignatenko con In Deep Sleep, meditazione sul lutto e la perdita attraverso il sonno profondo in cui sembra sprofondare il mondo quando il protagonista Victor apprende la morte della moglie.

«Wild Roses: Registe in Europa – continuano Fabrizio Grosoli e Nicoletta Romeo – è invece uno spazio che intendiamo dedicare alle donne registe dell’Europa centro orientale (tra l’altro sempre, e da sempre, molto presenti al festival), individuando ogni anno un Paese diverso cui dedicare il nostro focus. I dati dell’audiovisivo sottolineano a livello globale le difficoltà dei progetti firmati da donne ad accedere ai finanziamenti, a prescindere dal valore artistico, e dunque ci è sembrato doveroso fare la nostra parte per valorizzare le registe europee attraverso una sezione ad hoc. Per cominciare, non potevamo che scegliere la Polonia, dove più che in ogni altro luogo, negli scorsi mesi, le donne hanno fatto sentire la propria voce contro nuove leggi che vogliono limitarne le libertà fondamentali». Cinque le registe “presenti”, seppure in streaming, al festival (e che parteciperanno a un panel coordinato da Marina Fabbri), attraverso le cui opere riscopriremo nuove forme di rappresentazione femminile e sguardi maturi e disincantati sul proprio Paese: Hanna Polak con Something Better To Come, ritratto di Jula, che vive la propria adolescenza nella più grande discarica d’Europa, la Svalka, alle porte di Mosca; Agnieszka Smoczyńska con The Lure, l’amore tra due sirene e un bassista nella Varsavia degli anni 80, tra horror e musical; Anna Zamecka con Communion, storia di bambini che devono crescere (troppo) in fretta; Anna Jadowska con Wild Roses, la vita di una città nella Slesia meridionale, tra la chiesa e le coltivazioni di rose, uomini che lavorano all’estero e giovani si ritrovano di sera alla fermata dell’autobus; Jagoda Szelc con Tower. A Bright Day, una prima comunione come tante mentre la tv riporta notizie inquietanti.

Promossa in collaborazione con Sky Arte, che premierà uno dei film della sezione attraverso l’acquisizione e la diffusione sul canale, Art&Sound propone quest’anno cinque titoli in anteprima che esplorano i più diversi ambiti artistici: Antigone – How Dare We!  di Jani Sever, in cui l’eroina classica rivive nell’interpretazione che ne dà il filosofo sloveno Slavoj Žižek; Homecoming – Marina Abramović and Her Children di Boris Miljković, un autentico “ritorno a casa” – in questo caso Belgrado – che ripercorre la vita di una delle più influenti protagoniste dell’arte contemporanea; Paris Calligrammes di Ulrike Ottinger, immersione autobiografica nella Parigi letteraria e artistica degli anni 60; Le Regard de Charles di Marc Di Domenico e Charles Aznavour, quarant’anni di vita, amori, viaggi del mitico chansonnier e attore attraverso le riprese della sua prima, inseparabile cinepresa, dono di Edith Piaf; Accidental Luxuriance of the Translucent Watery Rebus di Dalibor Barić, sperimentale (sin dal titolo) esempio di animazione dalle influenze surrealiste.

Confermata anche quest’anno la formula del Premio Corso Salani 2021 (in giuria la produttrice Donatella Palermo, la critica cinematografica Grazia Paganelli e il filmmaker Carlo Michele Schirinzi), che presenta cinque film italiani completati nel corso del 2020 e ancora in attesa di distribuzione: la dotazione del Premio (2mila euro) va intesa quindi come incentivo alla diffusione nelle sale del film vincitore. Immutato il profilo della selezione: opere indipendenti, non inquadrabili facilmente in generi o formati e per questo innovative, nello spirito del cinema di Corso Salani. I titoli: Divinazioni di Leandro Picarella, Libro di Giona di Zlatolin Donchev, Samp di Flavia Mastrella e Antonio Rezza, I Tuffatori di Daniele Babbo, Ultimina di Jacopo Quadri e Vera de verdad di Beniamino Catena

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