Woyzeck
di Werner Herzog
Germania, 1979, 81′
con Klaus Kinski, Eva Mattes, Wolfgang Reichmann, Willy Semmelrogge, Josef Bierbichler, Paul Burian, Volker Prechtl, Dieter Augustin, Irm Hermann
versione originale s/t italiano
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Biglietti
Ingresso intero: 8,00€
Ingresso ridotto: 6,00€
In una guarnigione di metà ottocento il soldato semplice Franz Woyzeck è vittima del suo capitano e del dottore che lo usa come cavia. Scoperto il tradimento della sua donna, Franz la uccide e si uccide. Dall’ultimo, straordinario frammento drammatico di Georg Büchner (1813-37), pubblicato postumo nel 1879, Herzog ha tratto un film terso ed essenziale, tutto al servizio del capolavoro di un autore che, giovanissimo, ha genialmente precorso il naturalismo e l’espressionismo.
In un sacrale quanto difficile rispetto nei confronti dell’omonimo frammento drammatico di Georg Büchner da cui è tratto, Woyzeck si presenta, tra tutti i film del regista monacense, come uno dei più affollati da temi e situazioni tipicamente herzoghiani. Segno, questo, di una possibile affinità elettiva tra il geniale drammaturgo ottocentesco e il visionario filmmaker tedesco che già aveva avuto modo di esprimersi, attraverso accenni più o meno compiuti, in alcuni lavori precedenti per esempio in L’enigma di Kaspar Hauser o in Segni di vita.
Tanto per cominciare assolutamente herzoghiano è Franz Woyzeck, il protagonista del dramma: un classico personaggio “sciamano” capace di mantenere un rapporto con un mondo altro che resta precluso alle persone così dette normali, ma che, proprio in virtù di questa sua capacità di “sentire” le cose “dalla terra”, è destinato ad un destino d’oppressione che scivola verso una disfatta esistenziale tanto inevitabile quanto interiormente grandiosa.
E poi, è profondamente radicata nella poetica del filmmaker tedesco la presenza di una misteriosa figura femminile capace, con la sua sola presenza, di monopolizzare e determinare il senso ultimo del film in una logica quasi salvifica (dove, però, salvezza e perdizione divengono due estremi che si confondono l’uno nell’altro), come già era avuto in Nosferatu, girato immediatamente prima. Gli stessi personaggi del capitano e del dottore, nel loro spregiudicato uso della scienza non come mezzo atto al perseguimento di un sapere ulteriore, ma come vero e proprio strumento per violentare tutto ciò che viene sentito come “anomalo” al fine di ricondurlo, in qualche misura, ad uno statuto di normalità socialmente accettabile, rientrano in un discorso sulla difficoltà da parte delle società ad accettare il diverso che aveva avuto modo di esprimersi molte volte in precedenza nella filmografia di Herzog e in maniera del tutto esplicita in Anche i nani hanno cominciato da piccoli.
Ma più di tutto, la vicinanza del dramma di Büchner ad Herzog sta soprattutto nella struttura interna, in quella logica poetica che vede nell’evolversi e concatenarsi degli eventi non tanto il disegno di un coerente, razionale sviluppo lineare, quanto piuttosto l’apparente capricciosità di una serie di Illuminazioni che costruiscono un percorso diegetico fatto dall’accumulo di frammenti e detriti, in una sorta di idiosincrasia narrativa che verrà esasperata ancor più in alcuni film successivi del regista (vedi Cobra verde, per tutti).
Di fronte ad una opera capitale del teatro tedesco che comporta ancor oggi dei problemi filologici ed interpretativi insolubili, Herzog non si limita, allora, ad una piatta, televisiva illustrazione del testo, ma rivendica, ad ogni passo, una vera e propria identità spirituale con la piéce, in un film che accetta la sfida estrema di concentrarsi sui volti degli attori (sensazionale l’interpretazione di Kinski) e sui dialoghi, rifiutando a priori di mettere in immagini ciò che deve restare nell’arcano mondo della parola. Un film all’epoca sottovalutato e poco amato, e che invece oggi attende una sua giusta rivalutazione.
Nella stessa rassegna Werner Herzog